Il blillante e onolevole agente lettelalio - 3


Parte terza: l'incontro - Mr Livingstone, I presume�

Ovviamente arrivo alla stazione Termini in netto anticipo. È imperativo non partire con il piede falso arrivando magari tardi all'appuntamento. Mi posiziono davanti al bar dalla caratteristica insegna e cerco di non sembrare un terrorista kamikaze in attesa dell'orario di punta. Una commessa del MacDonald's mi guata con sospetto, e io le faccio l'occhiolino, gesto che mai avrei concepito in uno stato d'animo normale. Si avvicina l'orario prestabilito. Fisso tutti i signori con aspetto da professionisti intelligenti, gente che si situi a mezza strada tra uno psichiatra della scuola di Jung e un frequentatore di salotti letterari esclusivi. Cerco con gli occhi un personaggio ben piantato, alto, vestito magari con un trence londinese accoppiato a una giacca di tweed, con l'alito che profuma di tabacco da pipa dello Yorkshire, il quale mi interpelli più o meno con un "Mr Livingstone, I presume�". Un paio di signori simili alle mie aspettative mi sfilano accanto senza degnarmi di uno sguardo. Quindi mi sento tirare per un gomito: "Lei deve essere la persona che aspettavo". Dio mio, eccolo qui! Trasecolo, boccheggio. Davanti a me c'è un ometto che avrà cinquant'anni e ne dimostra perlomeno settanta [dirò poi la reale età di questo signore NdR]. Barba all'agitatore politico ottocentesco. Pantaloni e giacca di jeans consunti, aria sfatta da barbone, spallucce da riformato alla visita di leva e una vocina sgradevole più acuta di quella che serve per cantare "Anima mia". Penso a un errore, ma il barbone, l'accattone, dimostra di conoscermi. È lui, è l'agente letterario. Mi servono due o tre buoni minuti, ma mi riprendo. Quest'incontro inizia in modo inusuale, mi dico, ma dopotutto quella poca cura per l'aspetto fisico è senz'altro una qualità. Dimostra che il mio interlocutore basa le sue fortune professionali su competenza e capacità.

Il tempo di uscire dalla stazione, sotto il bel sole di Roma, ed ecco un nuova sorpresa. Il mio interlocutore mi mostra il suo mezzo di locomozione. E' forse una fuoriserie di quelle che nella pubblicità preferisci a una Miss Italia? E' una fiammante berlina cinque porte ancora in garanzia? E' una utilitaria vecchiotta ma dignitosa che fa ancora il suo lavoro alla grande? Niente di tutto questo. Il suo mezzo di locomozione è un ciclomotore vecchio di almeno trent'anni, una specie di Ciao della Piaggio che sarebbe stato considerato un catorcio ai tempi in cui Ronald Reagan faceva l'attore. Il potente mezzo di trasporto è assicurato a un palo metallico con una catena enorme, che con tutta evidenza ha il compito di dissuadere i ladri dall'impadronirsi di quel gioiello della meccanica.
Il grande agente letterario, mandandomi un po' di forfora sulle scarpe, mi informa che a circa quattrocento metri c'è una grande libreria romana, la Mel Books, fornita di bar. Per un attimo avvampo di vergogna, temo che mi chieda di salire sul risicato sedile posteriore del suo catorcio per condurmi alla nostra nuova destinazione. Però il destino ha pietà di me. Il barbone, cioè l'agente letterario, mi spiega che il suo ciclomotore non può portarci tutti e due (bella forza, c'e da chiedersi come riesca a reggere una sola persona pur denutrita come il mio interlocutore) e mi chiede se posso raggiungere a piedi la libreria. Sollevato dalla gogna evitata, scatto deciso a stargli alle costole.

Ecco finalmente il bar della Mel Books. Arrivano i caffè al nostro tavolino e parliamo. I nuovi complimenti per quanto ho scritto e la previsione della mia imminente e luminosa carriera letteraria mi fanno scordare il look da barbone, la vocetta da Cugini di Campagna e perfino il ferrovecchio a due ruote, che forse ho solo immaginato. A un tratto noto che ho bevuto il mio caffè da un pezzo e che il mio interlocutore il suo non l'ha ancora toccato. L'agente letterario intanto ha superato la fase dei complimenti e del suo proposito di riprendere il romanzo nel cassetto. Ora mi spiega che lui viaggia molto. Adora farlo. Con la sua ragazza (ragazza? ma non aveva settant'anni?) è stato in Sicilia, Abruzzo, Veneto, dappertutto. Ama l'Italia, per lui è la nazione più bella del mondo. Spesso, mi dice en passant, lo ospitano gli scrittori che hanno contatti con la sua agenzia letteraria. L'ultima volta è stato due settimane in provincia di Catania, a casa di uno scrittore gran compagnone. Ah, loro due con le rispettive ragazze hanno passato un periodo straordinario! Purtroppo non è mai stato a Napoli, dice con rammarico. Mi guarda come se dovessi capire qualcosa, ma io non capisco un bel niente. Allora lui spiega che splendido posto è la Città del Sole e che gente unica la abita, sono davvero fortunato a vivere lì. Ancora un suo sguardo, ma la mia faccia da ebete non vuole saperne di schiarirsi. A proposito di Napoli, continua allora l'agente letterario, lui progetta di andarci in quel periodo, forse addirittura il mese prossimo. Mi fissa ancora una volta, e a questo punto anche un individuo ritardato come me crede di afferrare qualcosa. Tossendo imbarazzato, gli dico che purtroppo non posso ospitarlo. Passo almeno due minuti a scusarmi di quella fatalità. L'agente letterario mi assicura che non c'è niente da scusarsi, lui (anche se poco ci mancava che si invitasse da solo a casa mia) non aveva affatto considerato questa eventualità. E' il momento della consegna dei preziosi manoscritti con cui voglio fare colpo. Il mio interlocutore a malapena li guarda, anche se giura che li leggerà con la massima attenzione.

Il suo caffè intanto è ancora lì, anche se io devo aver finito il mio da ore. Perché diavolo uno ordina un caffè se poi non vuole berlo? Capisco tutto quando passa un barista che ci guarda in cagnesco mentre porta via le tazze vuote da un tavolo vicino, subito occupato da clienti in attesa. Ho una rivelazione. Se l'agente letterario avesse bevuto il caffè, il barista avrebbe portato via le tazze vuote, il che ci avrebbe costretto o ad andarcene (e magari a continuare la conversazione seduti su un marciapiede romano) o a compiere una scelta che il mio conoscente sembrava considerare anche peggiore, cioè fare una nuova ordinazione. L'impazienza dei baristi nei nostri confronti ormai è palese; sbattono le posate nei pressi del nostro tavolo e ci indirizzano frasi derisorie sempre meno dissimulate. A un certo punto anche un individuo dalla strenua resistenza come il grande agente letterario deve cedere agli attacchi ormai frontali e beve il caffè a più di due ore dalla sua consegna. Non accenna neppure a fare una nuova ordinazione. Il caffè è finito e dunque è finita pure la nostra conversazione. Ci avviciniamo alla cassa. Mi dice che offre lui. Giura che è suo dovere e che non vuole sentire proteste da parte mia. Ma al momento di tirare fuori i soldi è preso da amnesia. Non trova il portafogli. Divento un peperone mentre si rovista in tasca sotto lo sguardo scettico della cassiera, che dà l'idea di conoscere il tipo. Non resisto alla vergogna. Pago la cassiera e me la filo a spron battuto inseguito dalle ironie dei baristi poco distanti. Il mio nuovo conoscente ha una faccia di bronzo che non fa una piega. Dice che l'ho offeso pagando al suo posto. In ogni caso la prossima volta offrirà lui, su questo non ci piove. Delle volte sono un ingenuo senza speranza, è vero. Eppure, mentre usciamo dalla Mel Books e ci avviamo al catorcio potentemente assicurato a un lampione, anch'io ho ormai capito che non ci sarà mai una prossima volta in quell'individuo pagherà qualcosa a qualcuno. Mentre saluto il grande agente letterario che mi ha indotto a cantare di "cavigliere del Kathakali" o dei "danzatori bulgari a piedi nudi sui bracieri ardenti", penso alle parole di Giorgio Chinaglia e al suo pessimismo leopardiano sul mondo e su chi lo abita.

Il blillante e onolevole agente lettelalio - 2


Parte seconda: Cantando sotto la pioggia

Il giorno è quello di alcuni anni fa. Ho mandato il mio romanzo a un po’ di case editrici illudendomi che il lavoro preparatorio mi abbia guidato verso le sedi e le persone interessate a esaminare il mio lavoro. Però stavolta decido di tentare una strada nuova.
Esistono pure gli agenti letterari, no? rifletto. E gli agenti letterari, da quel poco che si sente in giro, sembrano appartenere a una razza di eletti dotata del potere di farti pubblicare e avere successo. Occhei, mi dico, vediamo cosa ne pensa questa razza sovrumana del mio romanzo. Mi tuffo in una rapida ricerca su internet per eliminare le agenzie letterarie a pagamento: quelle del tipo “mi paghi duecento cocuzze per ogni cento pagine che fingo di leggerti”. Quindi ecco qui. Ho l’agenzia che fa al mio caso. Importante. Conosciuta. Stimata perfino. Con noti scrittori tra i suoi clienti. E non prende soldi per leggere il tuo lavoro. E’ lei, non ci sono dubbi. Se fosse una donna, me la sposerei su due piedi. Una telefonata per accertarmi che è tutto oro quello che luccica e via, mando il romanzo.

Sono passati sei mesi. E’ vero che il tempo vola, ma tutto questo tempo senza risposte non mi induce all’ottimismo. Ho perso le speranze, ma tanto per curiosità faccio una telefonata. “Che ne avete fatto del mio romanzo?” dico all’agente letterario che ho la ventura di contattare.
“Quale romanzo?” risponde. “Qui non è arrivato niente di suo.”
“Guardi”, dico io, “magari non vi è piaciuto, ma arrivare è arrivato. Ho anche la ricevuta di ritorno della raccomandata.”
“Io non ho trovato niente, ma aspetti qualche giorno che faccio una ricerca.” Il mio interlocutore parla come se i vasti locali della sua agenzia fossero invasi dagli scritti di tutto il mondo.
Accetto di buon grado. D’altronde che altro posso fare? Faccio ancora un paio di telefonate, distanziate da alcune settimane per non farmi la nomea di rompiscatole (nonostante la mia scarsa esperienza editoriale ho già capito che in certi ambienti devi muoverti in punta di piedi come Harvey il maggiordomo di Elisabetta).
Alla terza o quarta telefonata, il colpo di scena. Che dico colpo di scena. Il terremoto. Lo tsunami, il maremoto, l’onda anomala, la potente scossa tellurica che cambia la struttura stessa del pianeta. L’agente letterario dice che ha trovato il mio romanzo dopo laboriosa ricerca. Non solo, ma l’ha pure letto tutto. Non solo, ma gli è pure piaciuto senza remore. E’ rimasto conquistato dal mio stile. Lo ha letto tutto d’un fiato. Infine l’affondo che minaccia di uccidermi: giura che fatto le ore piccole a casa sua perché non riusciva a staccare gli occhi dalla mia prosa. Voleva sapere come andava a finire.
Fulminato, non riesco a spiccicare parola. Penso a uno scherzo, ma il mio interlocutore è serio. Dice che ho talento. Talento, che stupenda parola! Non solo, ma ho anche le potenzialità per vendere bene. Certo bisogna correggere alcune cose che non vanno, dare una ritoccatina al finale, ma il grosso del romanzo va a meraviglia. Muto, rimango pietrificato con il telefono in mano, più o meno nella stessa posizione e con lo stesso eloquio dell’unica volta che ebbi il coraggio di chiamare a casa Giovanna detta Vanna, ossia la più bella e impossibile ragazza della mia classe al liceo.

Seguono altre telefonate. Il molto onorevole agente letterario non cambia versione ed è prodigo di elogi. Passo il tempo per le strade del mio quartiere cantando a tutta voce (quando piove e penso che nessuno mi veda) “Voglio vederti danzare” di Battiato. Cantare Battiato va bene, mi dico a un certo punto, ma qualche informazione aggiuntiva sull’agenzia letteraria non guasta. Nuova ricerca con Google. I risultati sono ottimi. Su internet è descritta come agenzia letteraria seria, con molte succursali in Europa, Sudamerica e altrove. E’ roba grossa. Però non mi basta ancora. Sarò anche pignolo da fare schifo, ma faccio un’ultima indagine. Vado nella più grossa libreria napoletana, la Guida, che guarda caso è anche una casa editrice di un certo nome. Mi vergogno non poco, ma faccio le domande che mi sono preparato. Una gentile direttrice editoriale mi dice di dormire sonni tranquilli. L’agenzia di cui parlo è simbolo di serietà e competenza. Anche la casa editrice della grande libreria ha numerosi e proficui rapporti con essa. Anzi, sapendo che l’agenzia mi ha proposto un contratto editoriale pluriennale, la mia interlocutrice si complimenta con me come se fossi già uno scrittore di best-seller e non un pinco pallino che non ha mai visto in faccia un editore degno di questo nome. Ho sentito abbastanza. Non ho più dubbi. L’attesa maledetta è finita. Faccio uno sforzo immane per non mettermi a cantare “Cuccurucucù Paloma" nella libreria.
Prendiamo un appuntamento, dico io e il grande agente letterario che con lo schiocco di due dita può fare la tua fortuna. L’appuntamento è un po’ strano. Non in uno studio elegante con poltrone che odorano di successi letterari, ma alla stazione Termini di Roma. Per la precisione davanti a un bar che ha l’insegna fatta in un certo modo e che confina con un MacDonald’s. Niente di male. L'appuntamento originale darà un profumo di avventura alla mia trionfale entrata nel regno della letteratura.

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Parte prima: Il teorema di Giorgio Chinaglia

Iniziamo da Giorgio Chinaglia. Un calciatore, uno di quelli che non ti scordi. Un centravanti sfondaporte. Uno che la buttava dentro anche con un gamba ingessata. Bravo e trascinante in campo, non aveva una cultura cattedratica o modi da gentleman. Un giorno al mitico “Processo del lunedì” si trovò a litigare con i giornalisti sportivi non ricordo per quale motivo, ma i motivi non mancavano mai quando si trattava di “Giorgione” Chinaglia. Lo criticavano perché aveva sbagliato un gol o forse solo perché ai giornalisti era antipatico. Dicevano che non era bravo, forse non lo era mai stato. Lui fece un ragionamento che suonava più o meno così. Perché dovete decidere voi se uno è un bravo giocatore o no? Che titoli avete? Che cosa avete dimostrato nella vita, se non il fatto di non saper giocare a pallone e dover essere costretti, una volta aver afferrato questa triste realtà, a fare i giornalisti sportivi? Perché devono guidare e orientare un settore proprio quelli che hanno dimostrato di non avere nessuna qualità in quel particolare campo della vita? Giorgione non si espresse proprio così, ma, in mezzo ai coloriti apprezzamenti verbali e alle minacce di aggressioni fisiche che caratterizzavano il suo eloquio, il suo ragionamento non di discostava poi tanto da questi termini.
Il sanguigno centravanti della Lazio e della Nazionale non era per niente sciocco, anche se molti giornalisti sportivi tendevano a presentarlo come una sorta di Uomo di Neanderthal, se non come un vicolo cieco dell’evoluzione umana. Vediamo se possiamo estrapolare qualcosa dalle sue affermazioni. Dunque è proprio vero che quelli che dimostrano di non avere capacità sono destinati a guidare il settore di loro competenza? E se per un paradosso cosmico ciò fosse vero anche solo in parte, la fondamentale intuizione del re dei bomber non potrebbe adattarsi anche a campi della vita diversi dal pallone? Tanto per citare un settore a caso, non potrebbe riguardare anche l’editoria? L’editoria non potrebbe essere guidata (per lo meno in una parte cospicua) proprio da quelli che hanno dimostrato di non saper scrivere e di non avere qualità intellettuali e morali per capire cosa sia valido e no in campo letterario?

Non lo so, nessuno lo sa. Ma forse una mia esperienza può essere utile per inquadrare meglio il problema. Tuttavia cerchiamo prima di individuare le figure guida in questo campo. Ce ne sono molte. Dal Dio Editore, l’essere Onnipotente che tutto può, ai distributori, ai tipografi, o anche al bizzarro coacervo umano che bazzica le segreterie letterarie, contrassegnato da denominazioni esterofile che appaiono fumo negli occhi allo stato puro, cioè gli editor, i supervisor, magari gli advisor e la vasta genia dei freelance di varia natura. In ogni modo qui avremo tempo solo di parlare di una figura professionale più amichevole, che non ostenta titoli pomposi e incomprensibili, qualcuno che spesso ti dà l’idea di un amico capace e leale, anzi del solo amico che può aiutarti a farti luce nella giungla del mondo editoriale. E chiaro che qui si parla dell’agente letterario.
Tra poco faremo un esperimento. Ci domanderemo: potrebbe applicarsi alla figura professionale testé citata il teorema elaborato dal fine filosofo Giorgio Chinaglia? A prima vista parrebbe di no. L’agente letterario gode fama di persona preparata e seria. Lo si immagina come un individuo abbigliato con eleganti completi di grisaglia dai toni autunnali o con tailleur blu manager che ti danno l’idea di efficienza e competenza. Lo si percepisce come un individuo colto che ha letto l’opera omnia di Karl Popper e che a scuola era costantemente tra i ragazzi più svegli della classe. E’ proprio così? Vediamo cosa ci dice la nostra esperienza.

Probabilmente dedicherò i post di questa settimana alle tribolate esperienze avute tempo fa con un agente letterario romano. Le tre puntate di questo racconto fanno parte di un lungo articolo che scrissi per una mia amica quando non avevo ancora il blog (ho già parlato di lei nel post sulla “Freccia nera”). Su Giorgione Chinaglia, trovo assurdo il mandato di cattura emesso contro di lui nei giorni scorsi. Mi pare uno di quei provvedimenti azzardati che fanno dubitare della serenità di certa magistratura.
Continua nella seconda puntata…