Le gambe assassine dell'agente letteraria


Napoli-Milano di diversi anni fa. Dovevo andare nella città ambrosiana per incontrare un’agente letteraria che aveva letto il mio romanzo a pagamento e, con qualche titubanza (certo l’interessata avrebbe preferito incamerare le mie cinque cocuzze, 500 mila del vecchio conio, cavandosela con banalità telefoniche) aveva acconsentito a incontrarmi per comunicarmi le sue sagge riflessioni sulla mia opera (ehm) letteraria.
A quell’epoca ero molto ingenuo della vita (forse lo sono tuttora). Mi sembrava di andare non a un appuntamento con una ladra vigliacca (di quelle astutissime che non rischiano nemmeno la galera a differenza degli onesti rapinatori a mano armata risiedenti nel mio palazzo), ma con una persona magnanima che avrebbe potuto cambiare la mia vita letteraria e non.

Come al solito avevo pochi soldi. Avevo preso il treno che costava meno. E per non sprecare in vitto ulteriore pecunia non disponibile, mi ero fatto preparare in famiglia un po’ di vivande da portare con me. Il piatto forte era rappresentato da una merenda bella grossa con funghi nostrani, melanzane sott’olio alla napoletana e fettine di carne alla pizzaiola (piene di origano e spezie). Una delizia.
Salgo sul treno e prendo posto. Meditavo di mangiare la merenda un po’ più in là, diciamo dalle parti di Firenze, in modo da farmi bastare i viveri per tutto il viaggio (tra il compenso alla ladra letteraria, il costo del biglietto e le spese varie mi si erano prosciugate le risicate finanze). La carrozza è quasi vuota, quando ecco che si avvicina una donzella. E’ una bella ragazza e non ha alcuna difficoltà a fare amicizia con gli estranei. Non è una persona dal linguaggio e dal pensiero oltremodo raffinati (inclinava un tantino sul volgare di tanto in tanto)… ma ai miei occhi quello è un dettaglio del tutto irrilevante. Tra l’altro dopo poche battute si rivela come una ragazza dai costumi estremamente liberi e ti fa quasi aleggiare davanti agli occhi la possibilità di un’avventura sessuale in quello stesso scompartimento ferroviario semivuoto.
Sì, ti dici ridendo come un fesso per qualche idiozia detta dalla nuova venuta, questa è una che ci sta. Forse potrebbe starci pure con un inguaribile imbranato con le donne come te.

Sono passati alcuni minuti che la cinguettante donzella (parla quasi sempre solo lei) dichiara che ha un certo appetito e mi chiede se ho qualcosa nella mia borsa di viaggio. Non ci sto a pensare un secondo e tiro fuori la regina delle mie vivande, la merenda con funghi nostrani, melanzane alla napoletana e la pizzaiola. Offro alla mia interlocutrice la parte migliore della merenda, quella più grossa e con più ripieno. E quindi continuo maldestro la conversazione. Curiosamente noto che da quando la donzella si è impossessata della parte migliore della mia merenda il suo interesse nella conversazione sembra scemato, ma forse è solo troppo impegnata a far lavorare le mascelle.
Passa il controllore e chiedo il permesso di allontanarmi per domandargli un’informazione di viaggio. Ci avrò messo un centinaio di secondi al massimo, ma quando torno al mio posto lo trovo vuoto. La ragazza non c’è più. Faccio qualche passo tra le file di sedili e la ritrovo sette od otto posti più avanti. Parla con due giovanotti che sembrano ameni e loquaci come lei. Si è portata appresso il suo bagaglio come se si fosse trasferita per sempre in quel nuovo posto. Noto che si è portata dietro pure la parte migliore della mia merenda e che se la divide con i due nuovi conoscenti. Fa finta di non vedermi, anche se avrà parlato quasi mezz’ora con me. Mi sale in sangue alla testa. Vorrei dirle qualcosa come “Grandissima zocc***, sputa subito il maltolto!” Ma la merenda gliel’ho offerta io, non posso negarlo… e poi mi conosco, certe volte se inizio a parlare non mi posso più fermare.

Che fare? Diciamo che la gentildonna mi ha fregato. Sono inconvenienti della vita. Delle volte ti svaligiano la casa, altre volte ti prosciugano il conto bancario (per chi ce l’ha) o ti fanno sparire la macchina che ancora devi iniziare a pagare… a me era andata bene. Mi avevano solo fregato la merenda che avrei dovuto mangiare dopo Firenze Santa Maria Novella. Mi toccava solo tirare un po’ la cinghia o barattare qualche capo di vestiario per un po’ di cibarie. Niente di grave.
Dopo quella volta, mai offerto più niente a nessuno in treno. Al diavolo, se volete la mia prelibata merenda guadagnatevela spianandomi in faccia un’onesta P38 con il colpo in canna!

Quando gli editori fanno Oh


Domanda: gli editori possono essere stupidi?
Risposta: sì, possono esserlo. Talvolta anche in maniera irritante.
In effetti per quanto riguarda il rapporto editori-scrittori sono noti i mille difetti attribuiti agli autori in cerca di editore (per lo meno sono noti a coloro che hanno familiarità in questo campo della vita). Gli autori, si dice, specie se esordienti, si dice, sono sciocchi, superficiali, dozzinali, rompiscatole, attaccabrighe, scrivono lettere lunghe e tediose, ti tengono a telefono per ore per parlarti del loro ultimo capolavoro che pare scritto da un adolescente appassionato di wrestling, sono piagnoni, cocchi di mamma, narcisi più brutti e antipatici di Sgarbi e hanno perfino il fiato che gli puzza.
E gli editori? In verità qualche volta si arriva ad ammettere che sì, quelli che ti spillano soldi dalle tasche per farti pubblicare non hanno un comportamento del tutto irreprensibile. Qualche anima bella arriva a chiamarli perfino ladri (però subito specificando che quella genia non appartiene alla nobile schiatta degli editori, ma alla più banale categoria dei furfanti da strada). In tutti i casi sulla questione della stupidità mi pare di non aver mai udito apprezzamenti in merito. Forse la mia esperienza in questo campo potrebbe essere utile per inquadrare meglio il problema.

Dunque, avevo finito di scrivere il mio romanzo e condotto una lunga e tediosa ricerca su internet per individuare gli editori che avrebbero potuto esaminarlo con un minimo di speranza di successo. Avevo letto lunghe interviste agli editori e mandato e-mail per accertarmi se chi di dovere avesse intenzione di esaminare il mio lavoro prima delle calende greche.
La lista è pronta e i pacchi postali già confezionati. Solo che mi accorgo che uno degli editori a cui intendo rivolgermi non è stato chiaro sulla questione del contributo da parte degli autori.
Bene, non è un gran male. Ci vorrà un attimo per accertarlo, mi dico. Batto una prima palla piuttosto morbida. Mando una e-mail all’editore in questione e gli chiedo se per piacere potrebbe essere più chiaro sulla faccenda del contributo, perché dall’intervista che ha rilasciato a un noto sito di internet non ci ho capito molto. Risponde come se fosse Winston Churchill con il sigaro in bocca dicendo che non ricorda l’intervista in questione, ma che lui in questi casi dice sempre che gli editori sono quelli che svolgono le operazioni per farti pubblicare il libro, mentre gli altri si devono chiamare tipografi. Tra l’altro, afferma il novello Winston, certe domande gli sembrano offensive.
Ancora io alla battuta. Nuova e-mail per dire che ancora non ho capito bene. Non potrebbe essere più chiaro, il mio interlocutore, in modo da far capire anche persone dotate di poco comprendonio come il sottoscritto?

La sua risposta mi fa pensare di aver a che fare con un individuo disturbato. Mi manda una e-mail di almeno otto cartelle (quattro della lettera in sé e quattro di Post Scriptum). Mi dice che lui è costretto a spiegarmi tutto ma proprio tutto, come in certi siti americani in cui ti suggeriscono anche come e dove aprire il pacco in cui mettere il manoscritto e magari anche con quale mano farlo. Dice che si è riletto l’intervista che ho citato e che per lui è chiarissima. Ripete pari pari gli argomenti esposti in precedenza (solo facendolo con uno sproloquio linguistico di scadente qualità letteraria tale da farti rabbrividire) e vi aggiunge un lagnoso piagnisteo su come sia difficile e duro fare il mestiere di editore con i distributori che non ti prendono in considerazione e con tutto il mondo che ti tratta da Calimero. Mi trasmette una punta di paura quando mi comunica, seguendo un percorso mentale oscuro, che lui detesta le faccine a forma di icona usate per comunicare gli stati d’animo (quegli orrori a suo dire sostituiscono la potenza e la precisione della lingua scritta: campo in cui lascia intendere di essere un’autorità riconosciuta).
E’ la volta della mia volée di rovescio. Gli dico che non gli mando più il mio romanzo (non che sia il capolavoro che il mondo attende, tutt’altro). La comunicazione tra noi non è difficile, ma impossibile. Anche nell’improbabile caso in cui fosse folgorato dalle mie qualità letterarie, come riuscirebbe a comunicarmelo se non per interposta persona? Mi avrà scritto almeno una dozzina di cartelle e io ancora non ho capito se lui questi benedetti soldi li prende o no.
Risponde ormai irridente che se non capisco dovrei cercarne la ragione nella mia testa. Fa un po’ di sproloqui penosi e pessimamente scritti. Tra l’altro dice: “Se uno che le dice ‘Quelli che bevono la Budweiser sono degli stronzi!’, lei gli andrebbe a chiedere ‘Mi scusi, lei beve la Budweiser?’.” Infine si decide a dire a grandi lettere che lui i soldi non li prende (dovrei usare il condizionale, perché ormai a questo punto il dubbio mi resta e credo mi resterà per sempre).
La mia risposta finale, purtroppo non molto urbana (ma bisogna anche considerare ciò che avevo dovuto subire e le volte che avevo fantasticato di sottoporre a tortura l’editore in questione per estorcergli la verità) è stata la seguente: “E che cavolo (l’espressione usata era lievemente diversa da questa), ci voleva tanto a dirlo?”.

Fine della conversazione virtuale, anche se il mio interlocutore mi ha scritto ancora, credo soprattutto per avere l’ultima parola. Da quel giorno mi arriva una newsletter settimanale (assolutamente non richiesta e non gradita) sulle attività di una particolare casa editrice.
Ricordo che il giorno in cui si svolse questo surreale scambio di idee considerai a fondo l’idea di dedicarmi all’attività di editore. Se la concorrenza era rappresentata da individui poco acuti come quello di cui avevo fatto la conoscenza, in poco tempo avrei conosciuto un successo strepitoso.