Di libri, ma soprattutto di sguardi languidi


Era forse cieca?
No, mi pareva che ci vedesse benissimo, non aveva nemmeno gli occhiali.
Era strabica, nel senso che sembrava guardare verso di te e invece volgeva la vista altrove?
No, quale strabica, aveva un paio di occhi belli e regolari.
Allora forse ti controllava unicamente per non farti fregare il libro che avevi in mano (a proposito voglio sapere che libro era).
Sei del tutto fuori strada. Quella lì mi guardava come una donna guarda un uomo, quella mi voleva!
Esagerato.
Sì, forse un pochino, però scordati di pensare male.

Ieri, come si potrà arguire dal mio ultimo post, non ero molto allegro e in vena di buonisti pensieri natalizi. In effetti, per dirla com’era, ero piuttosto incazzato. Guardando il telegiornale dicevo stronzo e stronza a tutti quelli che venivano intervistati su qualunque argomento, qualunque opinione sostenessero. La mia reazione poteva pure essere giustificata in più di un caso, ma è chiaro che quando sei in questo stato d’animo è segno che le cose non vanno come dovrebbero.
Di sera ho deciso di andare a Napoli centro per sbirciare un po’ sulle bancarelle di libri usati a Port’Alba, azione che ha un effetto mitigatore sul mio umore come una razzia in boutique lussuose ce l’ha su certe donzelle non troppo dedite al pensiero riflessivo. Sono salito a piedi per via Mezzocannone e quindi dopo una scarpinata approdo alle mie amate bancarelle. Purtroppo ho notato quasi subito che lo scartabellare tra i libri usati non mi rasserenava come avevo sperato. Era tutta roba che già conoscevo e non mi pareva di vedere offerte davvero interessanti.
Quand’ecco che quasi alla fine di Port’Alba si verifica l’evento atteso, o per meglio dire inaspettato. Avevo in mano un saggio scritto da Luis Alvarez, cioè il fisico che con suo figlio Walter ha elaborato la teoria del meteorite che ha portato all’estinzione i dinosauri. Non era male e costava solo due e cinquanta, ma avevo letto già molto su quell’argomento e mi chiedevo se ero nella disposizione d’animo per affrontare un sia pur appassionante libro di teorie evolutive. Mentre esitavo con il saggio in mano, ecco che dalla libreria della bancarella esce una bella ragazza, la commessa, la quale mi guarda mentre fuma una sigaretta.
L'ho guardata pure io e quella continuava a fissarmi (mi pareva come una donna fissa un uomo, anzi ne sono certo). Ci siamo osservati diversi secondi. Poi la ragazza è tornata all'interno. Me ne sono rimasto un altro po’ con il libro di Alvarez in mano, ma ammetto che all’improvviso ero poco interessato alle spiegazioni della retrocopertina sullo strato geologico di iridio risalente a sessantacinque milioni di anni fa. Dopo qualche secondo la donzella esce di nuovo e mi fissa ancora (ripeto che era una bella ragazza). Io che dovevo fare? Le scocco una delle mie occhiate assassine che suonano più o meno: “Sei più desiderabile di una bistecca fiorentina in regime di proibizionismo da mucca pazza”. Insomma ci scambiamo una seconda occhiata lunga e quasi inquietante. Stavo già per precipitarmi verso di lei con il saggio che stringevo in mano (questa magari è un’esagerazione letteraria, dato che se fossi questo tipo di persona mi sarei trovato in una discoteca e non davanti a una bancarella di libri usati), quando ecco che dalla libreria emerge il ragazzo della commessa, il quale non trova di meglio da fare che mettersi tra me e lei.
Addio sguardi malandrini. Ho dovuto battere in ritirata. Però sulla strada del ritorno mi dicevo: mica devo essere tanto male se quella bella ragazza mi concupiva! Avrò forse sognato a occhi aperti?
Per completezza di informazione devo dire che poco dopo questo evento, un’altra ragazza per strada ha ricambiato il mio sguardo a lungo e anche questa non era male. Non sarà che per Natale le donzelle accusino un calo di diottrie visive?

Ah, ieri non ho comprato niente. Però ho deciso che la prossima volta comprerò il saggio di Alvarez, tanto sta lì da un paio di mesi ed è improbabile che qualcuno me lo freghi… ovviamente l’acquisto sarà l’occasione giusta per dare un altro sguardo alla fanciulla e verificare se la sua vista funziona come dovrebbe. :-))

Il blillante e onolevole agente lettelalio - 3


Parte terza: l'incontro - Mr Livingstone, I presume�

Ovviamente arrivo alla stazione Termini in netto anticipo. È imperativo non partire con il piede falso arrivando magari tardi all'appuntamento. Mi posiziono davanti al bar dalla caratteristica insegna e cerco di non sembrare un terrorista kamikaze in attesa dell'orario di punta. Una commessa del MacDonald's mi guata con sospetto, e io le faccio l'occhiolino, gesto che mai avrei concepito in uno stato d'animo normale. Si avvicina l'orario prestabilito. Fisso tutti i signori con aspetto da professionisti intelligenti, gente che si situi a mezza strada tra uno psichiatra della scuola di Jung e un frequentatore di salotti letterari esclusivi. Cerco con gli occhi un personaggio ben piantato, alto, vestito magari con un trence londinese accoppiato a una giacca di tweed, con l'alito che profuma di tabacco da pipa dello Yorkshire, il quale mi interpelli più o meno con un "Mr Livingstone, I presume�". Un paio di signori simili alle mie aspettative mi sfilano accanto senza degnarmi di uno sguardo. Quindi mi sento tirare per un gomito: "Lei deve essere la persona che aspettavo". Dio mio, eccolo qui! Trasecolo, boccheggio. Davanti a me c'è un ometto che avrà cinquant'anni e ne dimostra perlomeno settanta [dirò poi la reale età di questo signore NdR]. Barba all'agitatore politico ottocentesco. Pantaloni e giacca di jeans consunti, aria sfatta da barbone, spallucce da riformato alla visita di leva e una vocina sgradevole più acuta di quella che serve per cantare "Anima mia". Penso a un errore, ma il barbone, l'accattone, dimostra di conoscermi. È lui, è l'agente letterario. Mi servono due o tre buoni minuti, ma mi riprendo. Quest'incontro inizia in modo inusuale, mi dico, ma dopotutto quella poca cura per l'aspetto fisico è senz'altro una qualità. Dimostra che il mio interlocutore basa le sue fortune professionali su competenza e capacità.

Il tempo di uscire dalla stazione, sotto il bel sole di Roma, ed ecco un nuova sorpresa. Il mio interlocutore mi mostra il suo mezzo di locomozione. E' forse una fuoriserie di quelle che nella pubblicità preferisci a una Miss Italia? E' una fiammante berlina cinque porte ancora in garanzia? E' una utilitaria vecchiotta ma dignitosa che fa ancora il suo lavoro alla grande? Niente di tutto questo. Il suo mezzo di locomozione è un ciclomotore vecchio di almeno trent'anni, una specie di Ciao della Piaggio che sarebbe stato considerato un catorcio ai tempi in cui Ronald Reagan faceva l'attore. Il potente mezzo di trasporto è assicurato a un palo metallico con una catena enorme, che con tutta evidenza ha il compito di dissuadere i ladri dall'impadronirsi di quel gioiello della meccanica.
Il grande agente letterario, mandandomi un po' di forfora sulle scarpe, mi informa che a circa quattrocento metri c'è una grande libreria romana, la Mel Books, fornita di bar. Per un attimo avvampo di vergogna, temo che mi chieda di salire sul risicato sedile posteriore del suo catorcio per condurmi alla nostra nuova destinazione. Però il destino ha pietà di me. Il barbone, cioè l'agente letterario, mi spiega che il suo ciclomotore non può portarci tutti e due (bella forza, c'e da chiedersi come riesca a reggere una sola persona pur denutrita come il mio interlocutore) e mi chiede se posso raggiungere a piedi la libreria. Sollevato dalla gogna evitata, scatto deciso a stargli alle costole.

Ecco finalmente il bar della Mel Books. Arrivano i caffè al nostro tavolino e parliamo. I nuovi complimenti per quanto ho scritto e la previsione della mia imminente e luminosa carriera letteraria mi fanno scordare il look da barbone, la vocetta da Cugini di Campagna e perfino il ferrovecchio a due ruote, che forse ho solo immaginato. A un tratto noto che ho bevuto il mio caffè da un pezzo e che il mio interlocutore il suo non l'ha ancora toccato. L'agente letterario intanto ha superato la fase dei complimenti e del suo proposito di riprendere il romanzo nel cassetto. Ora mi spiega che lui viaggia molto. Adora farlo. Con la sua ragazza (ragazza? ma non aveva settant'anni?) è stato in Sicilia, Abruzzo, Veneto, dappertutto. Ama l'Italia, per lui è la nazione più bella del mondo. Spesso, mi dice en passant, lo ospitano gli scrittori che hanno contatti con la sua agenzia letteraria. L'ultima volta è stato due settimane in provincia di Catania, a casa di uno scrittore gran compagnone. Ah, loro due con le rispettive ragazze hanno passato un periodo straordinario! Purtroppo non è mai stato a Napoli, dice con rammarico. Mi guarda come se dovessi capire qualcosa, ma io non capisco un bel niente. Allora lui spiega che splendido posto è la Città del Sole e che gente unica la abita, sono davvero fortunato a vivere lì. Ancora un suo sguardo, ma la mia faccia da ebete non vuole saperne di schiarirsi. A proposito di Napoli, continua allora l'agente letterario, lui progetta di andarci in quel periodo, forse addirittura il mese prossimo. Mi fissa ancora una volta, e a questo punto anche un individuo ritardato come me crede di afferrare qualcosa. Tossendo imbarazzato, gli dico che purtroppo non posso ospitarlo. Passo almeno due minuti a scusarmi di quella fatalità. L'agente letterario mi assicura che non c'è niente da scusarsi, lui (anche se poco ci mancava che si invitasse da solo a casa mia) non aveva affatto considerato questa eventualità. E' il momento della consegna dei preziosi manoscritti con cui voglio fare colpo. Il mio interlocutore a malapena li guarda, anche se giura che li leggerà con la massima attenzione.

Il suo caffè intanto è ancora lì, anche se io devo aver finito il mio da ore. Perché diavolo uno ordina un caffè se poi non vuole berlo? Capisco tutto quando passa un barista che ci guarda in cagnesco mentre porta via le tazze vuote da un tavolo vicino, subito occupato da clienti in attesa. Ho una rivelazione. Se l'agente letterario avesse bevuto il caffè, il barista avrebbe portato via le tazze vuote, il che ci avrebbe costretto o ad andarcene (e magari a continuare la conversazione seduti su un marciapiede romano) o a compiere una scelta che il mio conoscente sembrava considerare anche peggiore, cioè fare una nuova ordinazione. L'impazienza dei baristi nei nostri confronti ormai è palese; sbattono le posate nei pressi del nostro tavolo e ci indirizzano frasi derisorie sempre meno dissimulate. A un certo punto anche un individuo dalla strenua resistenza come il grande agente letterario deve cedere agli attacchi ormai frontali e beve il caffè a più di due ore dalla sua consegna. Non accenna neppure a fare una nuova ordinazione. Il caffè è finito e dunque è finita pure la nostra conversazione. Ci avviciniamo alla cassa. Mi dice che offre lui. Giura che è suo dovere e che non vuole sentire proteste da parte mia. Ma al momento di tirare fuori i soldi è preso da amnesia. Non trova il portafogli. Divento un peperone mentre si rovista in tasca sotto lo sguardo scettico della cassiera, che dà l'idea di conoscere il tipo. Non resisto alla vergogna. Pago la cassiera e me la filo a spron battuto inseguito dalle ironie dei baristi poco distanti. Il mio nuovo conoscente ha una faccia di bronzo che non fa una piega. Dice che l'ho offeso pagando al suo posto. In ogni caso la prossima volta offrirà lui, su questo non ci piove. Delle volte sono un ingenuo senza speranza, è vero. Eppure, mentre usciamo dalla Mel Books e ci avviamo al catorcio potentemente assicurato a un lampione, anch'io ho ormai capito che non ci sarà mai una prossima volta in quell'individuo pagherà qualcosa a qualcuno. Mentre saluto il grande agente letterario che mi ha indotto a cantare di "cavigliere del Kathakali" o dei "danzatori bulgari a piedi nudi sui bracieri ardenti", penso alle parole di Giorgio Chinaglia e al suo pessimismo leopardiano sul mondo e su chi lo abita.

Il blillante e onolevole agente lettelalio - 2


Parte seconda: Cantando sotto la pioggia

Il giorno è quello di alcuni anni fa. Ho mandato il mio romanzo a un po’ di case editrici illudendomi che il lavoro preparatorio mi abbia guidato verso le sedi e le persone interessate a esaminare il mio lavoro. Però stavolta decido di tentare una strada nuova.
Esistono pure gli agenti letterari, no? rifletto. E gli agenti letterari, da quel poco che si sente in giro, sembrano appartenere a una razza di eletti dotata del potere di farti pubblicare e avere successo. Occhei, mi dico, vediamo cosa ne pensa questa razza sovrumana del mio romanzo. Mi tuffo in una rapida ricerca su internet per eliminare le agenzie letterarie a pagamento: quelle del tipo “mi paghi duecento cocuzze per ogni cento pagine che fingo di leggerti”. Quindi ecco qui. Ho l’agenzia che fa al mio caso. Importante. Conosciuta. Stimata perfino. Con noti scrittori tra i suoi clienti. E non prende soldi per leggere il tuo lavoro. E’ lei, non ci sono dubbi. Se fosse una donna, me la sposerei su due piedi. Una telefonata per accertarmi che è tutto oro quello che luccica e via, mando il romanzo.

Sono passati sei mesi. E’ vero che il tempo vola, ma tutto questo tempo senza risposte non mi induce all’ottimismo. Ho perso le speranze, ma tanto per curiosità faccio una telefonata. “Che ne avete fatto del mio romanzo?” dico all’agente letterario che ho la ventura di contattare.
“Quale romanzo?” risponde. “Qui non è arrivato niente di suo.”
“Guardi”, dico io, “magari non vi è piaciuto, ma arrivare è arrivato. Ho anche la ricevuta di ritorno della raccomandata.”
“Io non ho trovato niente, ma aspetti qualche giorno che faccio una ricerca.” Il mio interlocutore parla come se i vasti locali della sua agenzia fossero invasi dagli scritti di tutto il mondo.
Accetto di buon grado. D’altronde che altro posso fare? Faccio ancora un paio di telefonate, distanziate da alcune settimane per non farmi la nomea di rompiscatole (nonostante la mia scarsa esperienza editoriale ho già capito che in certi ambienti devi muoverti in punta di piedi come Harvey il maggiordomo di Elisabetta).
Alla terza o quarta telefonata, il colpo di scena. Che dico colpo di scena. Il terremoto. Lo tsunami, il maremoto, l’onda anomala, la potente scossa tellurica che cambia la struttura stessa del pianeta. L’agente letterario dice che ha trovato il mio romanzo dopo laboriosa ricerca. Non solo, ma l’ha pure letto tutto. Non solo, ma gli è pure piaciuto senza remore. E’ rimasto conquistato dal mio stile. Lo ha letto tutto d’un fiato. Infine l’affondo che minaccia di uccidermi: giura che fatto le ore piccole a casa sua perché non riusciva a staccare gli occhi dalla mia prosa. Voleva sapere come andava a finire.
Fulminato, non riesco a spiccicare parola. Penso a uno scherzo, ma il mio interlocutore è serio. Dice che ho talento. Talento, che stupenda parola! Non solo, ma ho anche le potenzialità per vendere bene. Certo bisogna correggere alcune cose che non vanno, dare una ritoccatina al finale, ma il grosso del romanzo va a meraviglia. Muto, rimango pietrificato con il telefono in mano, più o meno nella stessa posizione e con lo stesso eloquio dell’unica volta che ebbi il coraggio di chiamare a casa Giovanna detta Vanna, ossia la più bella e impossibile ragazza della mia classe al liceo.

Seguono altre telefonate. Il molto onorevole agente letterario non cambia versione ed è prodigo di elogi. Passo il tempo per le strade del mio quartiere cantando a tutta voce (quando piove e penso che nessuno mi veda) “Voglio vederti danzare” di Battiato. Cantare Battiato va bene, mi dico a un certo punto, ma qualche informazione aggiuntiva sull’agenzia letteraria non guasta. Nuova ricerca con Google. I risultati sono ottimi. Su internet è descritta come agenzia letteraria seria, con molte succursali in Europa, Sudamerica e altrove. E’ roba grossa. Però non mi basta ancora. Sarò anche pignolo da fare schifo, ma faccio un’ultima indagine. Vado nella più grossa libreria napoletana, la Guida, che guarda caso è anche una casa editrice di un certo nome. Mi vergogno non poco, ma faccio le domande che mi sono preparato. Una gentile direttrice editoriale mi dice di dormire sonni tranquilli. L’agenzia di cui parlo è simbolo di serietà e competenza. Anche la casa editrice della grande libreria ha numerosi e proficui rapporti con essa. Anzi, sapendo che l’agenzia mi ha proposto un contratto editoriale pluriennale, la mia interlocutrice si complimenta con me come se fossi già uno scrittore di best-seller e non un pinco pallino che non ha mai visto in faccia un editore degno di questo nome. Ho sentito abbastanza. Non ho più dubbi. L’attesa maledetta è finita. Faccio uno sforzo immane per non mettermi a cantare “Cuccurucucù Paloma" nella libreria.
Prendiamo un appuntamento, dico io e il grande agente letterario che con lo schiocco di due dita può fare la tua fortuna. L’appuntamento è un po’ strano. Non in uno studio elegante con poltrone che odorano di successi letterari, ma alla stazione Termini di Roma. Per la precisione davanti a un bar che ha l’insegna fatta in un certo modo e che confina con un MacDonald’s. Niente di male. L'appuntamento originale darà un profumo di avventura alla mia trionfale entrata nel regno della letteratura.

Il blillante e onolevole agente lettelalio - 1


Parte prima: Il teorema di Giorgio Chinaglia

Iniziamo da Giorgio Chinaglia. Un calciatore, uno di quelli che non ti scordi. Un centravanti sfondaporte. Uno che la buttava dentro anche con un gamba ingessata. Bravo e trascinante in campo, non aveva una cultura cattedratica o modi da gentleman. Un giorno al mitico “Processo del lunedì” si trovò a litigare con i giornalisti sportivi non ricordo per quale motivo, ma i motivi non mancavano mai quando si trattava di “Giorgione” Chinaglia. Lo criticavano perché aveva sbagliato un gol o forse solo perché ai giornalisti era antipatico. Dicevano che non era bravo, forse non lo era mai stato. Lui fece un ragionamento che suonava più o meno così. Perché dovete decidere voi se uno è un bravo giocatore o no? Che titoli avete? Che cosa avete dimostrato nella vita, se non il fatto di non saper giocare a pallone e dover essere costretti, una volta aver afferrato questa triste realtà, a fare i giornalisti sportivi? Perché devono guidare e orientare un settore proprio quelli che hanno dimostrato di non avere nessuna qualità in quel particolare campo della vita? Giorgione non si espresse proprio così, ma, in mezzo ai coloriti apprezzamenti verbali e alle minacce di aggressioni fisiche che caratterizzavano il suo eloquio, il suo ragionamento non di discostava poi tanto da questi termini.
Il sanguigno centravanti della Lazio e della Nazionale non era per niente sciocco, anche se molti giornalisti sportivi tendevano a presentarlo come una sorta di Uomo di Neanderthal, se non come un vicolo cieco dell’evoluzione umana. Vediamo se possiamo estrapolare qualcosa dalle sue affermazioni. Dunque è proprio vero che quelli che dimostrano di non avere capacità sono destinati a guidare il settore di loro competenza? E se per un paradosso cosmico ciò fosse vero anche solo in parte, la fondamentale intuizione del re dei bomber non potrebbe adattarsi anche a campi della vita diversi dal pallone? Tanto per citare un settore a caso, non potrebbe riguardare anche l’editoria? L’editoria non potrebbe essere guidata (per lo meno in una parte cospicua) proprio da quelli che hanno dimostrato di non saper scrivere e di non avere qualità intellettuali e morali per capire cosa sia valido e no in campo letterario?

Non lo so, nessuno lo sa. Ma forse una mia esperienza può essere utile per inquadrare meglio il problema. Tuttavia cerchiamo prima di individuare le figure guida in questo campo. Ce ne sono molte. Dal Dio Editore, l’essere Onnipotente che tutto può, ai distributori, ai tipografi, o anche al bizzarro coacervo umano che bazzica le segreterie letterarie, contrassegnato da denominazioni esterofile che appaiono fumo negli occhi allo stato puro, cioè gli editor, i supervisor, magari gli advisor e la vasta genia dei freelance di varia natura. In ogni modo qui avremo tempo solo di parlare di una figura professionale più amichevole, che non ostenta titoli pomposi e incomprensibili, qualcuno che spesso ti dà l’idea di un amico capace e leale, anzi del solo amico che può aiutarti a farti luce nella giungla del mondo editoriale. E chiaro che qui si parla dell’agente letterario.
Tra poco faremo un esperimento. Ci domanderemo: potrebbe applicarsi alla figura professionale testé citata il teorema elaborato dal fine filosofo Giorgio Chinaglia? A prima vista parrebbe di no. L’agente letterario gode fama di persona preparata e seria. Lo si immagina come un individuo abbigliato con eleganti completi di grisaglia dai toni autunnali o con tailleur blu manager che ti danno l’idea di efficienza e competenza. Lo si percepisce come un individuo colto che ha letto l’opera omnia di Karl Popper e che a scuola era costantemente tra i ragazzi più svegli della classe. E’ proprio così? Vediamo cosa ci dice la nostra esperienza.

Probabilmente dedicherò i post di questa settimana alle tribolate esperienze avute tempo fa con un agente letterario romano. Le tre puntate di questo racconto fanno parte di un lungo articolo che scrissi per una mia amica quando non avevo ancora il blog (ho già parlato di lei nel post sulla “Freccia nera”). Su Giorgione Chinaglia, trovo assurdo il mandato di cattura emesso contro di lui nei giorni scorsi. Mi pare uno di quei provvedimenti azzardati che fanno dubitare della serenità di certa magistratura.
Continua nella seconda puntata…

Fulminato dall'idea di un romanzo


Te ne stai per i fatti tuoi quando sei fulminato da un’idea. Zac, senti proprio la frecciata del Cupido della narrativa. Non è niente di sofisticato, anzi è un fotogramma mentale così semplice da farti quasi vergognare. Sei tu - sei sempre tu alla fin fine il protagonista delle tue fantasie narrative - che salvi una donna da un grave pericolo. Oppure sei tu che ti butti da una finestra attaccato a una corda (non c’entrerà la solita donzella con gli occhioni blu da salvare?), o infine sei ancora tu che hai un tic irresistibile tipo voler morire, rubare gli oggetti intimi delle persone, dare in escandescenze udendo un particolare suono o avere un passato di cui tu stesso non sei a conoscenza.
Questa elementare immagine fattasi largo nella tua mente ti stecchisce come capita nei più appassionati amori. Sei in preda a un vero e proprio colpo di fulmine. Ami. Il tuo cervello e il tuo cuore godono, li senti perfino mugulare: “Ooooohhhh!”. Continui a pensare e a ripensare a come potresti arricchire il fotogramma mentale che ti ha sedotto. Ed ecco avvicendarsi dentro di te scene e scene. Personaggi si delineano. Frammenti di trama si rincorrono nella tua testa. E pensi. Fai l’amore con la tua mente senza sosta. Sei euforico. Crei centinaia di situazioni diverse, di complicazioni, di colpi scena. Attingi a tutto il tuo vasto patrimonio iconografico di libri, ma soprattutto di film. Trasferisci nella tua storia in divenire questo o quel personaggio cinematografico adattandolo alle tue particolari esigenze. E crei, crei. Ma sopra ogni cosa sei felice come poche volte ti è capitato nella vita.

Come ho gia detto, a mio vedere il momento più bello di quando scrivi narrativa, quello in cui sei euforico e ti percepisci come un dio minore, è ancora prima che inizi a scrivere, nel momento in cui hai solo un'idea in testa. Provi una gioia che è quasi perfetta, assolutamente non adatta a questo mondo prosaico, quando sei fulminato da quell’ideuzza e quando cominci a pensare che quello spunto potrebbe essere abbastanza robusto e originale da sostenere un romanzo.
Naturalmente quasi subito ti accorgi che la moltitudine di scene e situazioni che elabori come un computer impazzito non funziona. Spesso è roba banale, poco coinvolgente, che non supera un secondo approfondito esame mentale. Elimini una quantità impressionante di spunti narrativi dalla tua lavagna mentale, ma ciò che resta è comunque materiale abbastanza vasto da ispirare una decina di romanzi.
Dopo qualche giorno di giubilante estro mentale, decidi che è il momento di mettere su carta le creazioni mentali sopravvissute fin qui. E via con un altro genocidio di idee. Si sfoltiscono temi, frammenti narrativi, complicazioni. Si decide che quel particolare personaggio, che pure pareva una bomba di originalità, con la tua storia non ha niente a che spartirci. Ci si rassegna a eliminare una irresistibile trama secondaria che ci porterebbe fuori tema. Si taglia, si taglia. Si buttano a mare quintali di zavorra narrativa, per consentire alla tua mongolfiera letteraria di continuare a volare e se possibile salire nei più alti cieli artistici.

Quali amori, quali antidepressivi, quali droghe leggere o pesanti! Quali stimolanti! Non ti serve niente per essere su di morale. Nemmeno un caffè annacquato. Il mondo non ti può offrire niente, perché qui dentro hai già tutto ciò che ti rende felice.

La gioia di quando scrivi narrativa


Approfittando di una mia recente corrispondenza con un’amica del blog che condivide la mia passione per la scrittura, parlerò dei momenti più belli legati a questa attività. Quali sono gli attimi più appaganti di quando sei impegnato a scrivere un romanzo? Quand’è che ti senti pieno di energie titaniche e di titaniche euforie? Quand’è che gioisci e quando ti senti un cadavere intento a suicidarsi su una storia che sembra spazzatura? Naturalmente questi stati d’animo sono legati a esperienze personali. Ciascuno è fatto a modo suo e reagisce agli stimoli in modo diverso. Tuttavia da ciò che ho letto posso affermare, sia pure con tutte le cautele e i distinguo possibili, che quanto dirò ha un certo fondamento e risulta abbastanza condiviso dalla maggior parte degli scrittori. (Mi considererò in questo e nei post seguenti uno scrittore a tutti gli effetti, anche se non ho conseguito nessun risultato degno di nota in questo campo; più o meno mi baserò sul presupposto che se respiri e mangi e ami sei un uomo, anche se non hai fatto nulla che ti qualifichi come tale… e se scrivi e soffri e gioisci facendolo, allora sei uno scrittore, anche se nessuno ti riconosce in questa veste.)

Parlerò con più dettagli della gioia collegata all’atto di scrivere narrativa nelle prossime puntate. Qui posso dire soltanto che secondo la mia esperienza personale io provo il massimo del piacere, uno stato d’animo di pura esaltazione addirittura, quando ho l’idea per un romanzo, quando sviluppo quell’idea, la arricchisco di complicazioni e quando infine la giudico sufficientemente robusta e originale per sostenere una storia da sviluppare su qualche centinaio di pagine (il fatto che io la giudichi degna non significa ovviamente che lo sia davvero). Da questo momento di gioia quasi perfetta, di idillio amoroso unico con la narrativa, c’è una costante perdita di felicità sino alla fine del romanzo (la gioia si muterà in profonda infelicità, fonte di memorabili incazzature, durante le operazioni che sei costretto a svolgere dopo aver scritto la parola fine sulla tua storia).

Voglia di avventura


“Quando un giorno che secondo voi dovrebbe essere mercoledì, vi sembra fin dall’inizio domenica, potete star certi che qualcosa non va”.
Se qualcuno ricorda un incipit più efficace e suggestivo di questo (si parla di letteratura in generale e non solo di fantascienza) questo è il momento di parlare.

Lessi Il giorno dei trifidi di John Wyndham al tempo del liceo, in un Oscar Mondadori con prefazione di Fruttero & Lucentini. Fui fulminato fin dall’inizio. Provavo quasi un dolore fisico per non poter scorrere le righe più in fretta e ricordo che dovevo faticare per reprimere l’impulso di girare le pagine per vedere come andasse a finire una certa situazione non ancora letta. Il romanzo che lessi apparteneva a un mio compagno di scuola e, per non restituire il prestito, rammento che inventavo continue scuse. Infine quello desistette dai tentativi di rimpossessarsi della sua proprietà, lasciando l’agognato volumetto nelle mie mani (lo risarcii della perdita con un romanzo della trilogia galattica di Asimov).

Breve nota. I miei gusti in fatto di fantascienza si dividevano e si dividono equamente tra due filoni. Quello delle grandi invasioni aliene: organismi di altri mondi, sempre animati da voglia di genocidio o sopraffazione distruttiva, cercano di assumere il controllo del mondo sterminandone gli abitanti. E quello avventuroso-catastrofico, molto in voga qualche decennio fa, tempo di guerra nucleare vista come possibile e forse probabile: l’incuria o la sete di potere degli uomini generano un cataclisma che distrugge gran parte della civiltà e tu (tu lettore che ti identifichi nel protagonista) devi sopravvivere in mezzo a difficoltà di ogni tipo. Il giorno dei trifidi appartiene al secondo filone fantascientifico. Ecco in breve l’inaudito inizio.

Ti svegli una mattina in ospedale. Tutto ti sembra strano. Gli orologi hanno battuto le sette e poi le otto, ma non senti il minimo rumore di traffico. Eppure il tuo ospedale è in una delle strade più rumorose e trafficate di Londra, e sai con certezza assoluta che quel giorno non è domenica.
Hai gli occhi bendati e non vedi niente. Hai subìto un’operazione chirurgica agli occhi (difficile, non sai se continuerai a vedere) e proprio questa mattina aspetti che ti tolgano le bende. Con molte difficoltà raggiungi il campanello e lo suoni e poi lo suoni ancora. Niente. Non viene nessuno. Chiami a tutta voce. Neanche l’ombra di un’infermiera. E intanto ancora nessun rumore di traffico. Cogli ogni tanto scalpiccii confusi e suoni di lamenti lontani. A un tratto capisci che sei solo e che nessuno verrà mai da te.
Sei costretto a prendere una decisione rischiosa. Devi toglierti le bende dagli occhi, anche se ciò potrebbe essere deleterio per la tua vista. Lo fai e ti va bene. La vista è annebbiata, ma poi si schiarisce. Ci vedi ancora.
Vai fuori. Nessuno. L’ospedale è deserto. Hai paura. Sei solo. Nessuno a cui domandare nulla. Percorri stanze e corridoi senza vita. Per le scale incontri finalmente un dottore. Gli chiedi informazioni. Lui ti domanda sorpreso: ma lei ci vede? Strana domanda, ti dici, ma rispondi che ci vedi perfettamente. Ti chiede di aiutarlo a raggiungere la finestra più vicina. Lo fai. L’attimo dopo il dottore a cui hai chiesto informazioni si è gettato di sotto spiaccicandosi in strada (sei al quinto piano).

Esci finalmente in strada e ti rendi conto della tragedia. È capitata una catastrofe che ha reso ciechi tutti gli uomini. A quanto pare sei il solo che ci vede. Londra è in pieno caos. La vita civile non esiste più. Niente polizia. Niente legge. E oltretutto le strade sono invase da creature vegetali di origine aliena, i trifidi, che uccidono con aculei avvelenati chiunque abbia la disgrazia di trovarsi sul loro cammino (perché possono spostarsi).

Che tu possa schiattare strozzata


Treno Napoli-Milano di diversi anni fa. Dovevo andare nella città ambrosiana per incontrare un’agente letteraria che aveva letto il mio romanzo a pagamento e, con qualche titubanza (certo l’interessata avrebbe preferito incamerare le mie cinque cocuzze, 500 mila del vecchio conio, cavandosela con banalità telefoniche) aveva acconsentito a incontrarmi per comunicarmi le sue sagge riflessioni sulla mia opera (ehm) letteraria.
A quell’epoca ero molto ingenuo della vita (forse lo sono tuttora). Mi sembrava di andare non a un appuntamento con una ladra vigliacca (di quelle astutissime che non rischiano nemmeno la galera a differenza degli onesti rapinatori a mano armata risiedenti nel mio palazzo), ma con una persona magnanima che avrebbe potuto cambiare la mia vita letteraria e non.

Come al solito avevo pochi soldi. Avevo preso il treno che costava meno. E per non sprecare in vitto ulteriore pecunia non disponibile, mi ero fatto preparare in famiglia un po’ di vivande da portare con me. Il piatto forte era rappresentato da una merenda bella grossa con funghi nostrani, melanzane sott’olio alla napoletana e fettine di carne alla pizzaiola (piene di origano e spezie). Una delizia.
Salgo sul treno e prendo posto. Meditavo di mangiare la merenda un po’ più in là, diciamo dalle parti di Firenze, in modo da farmi bastare i viveri per tutto il viaggio (tra il compenso alla ladra letteraria, il costo del biglietto e le spese varie mi si erano prosciugate le risicate finanze). La carrozza è quasi vuota, quando ecco che si avvicina una donzella. E’ una bella ragazza e non ha alcuna difficoltà a fare amicizia con gli estranei. Non è una persona dal linguaggio e dal pensiero oltremodo raffinati (inclinava un tantino sul volgare di tanto in tanto)… ma ai miei occhi quello è un dettaglio del tutto irrilevante. Tra l’altro dopo poche battute si rivela come una ragazza dai costumi estremamente liberi e ti fa quasi aleggiare davanti agli occhi la possibilità di un’avventura sessuale in quello stesso scompartimento ferroviario semivuoto.
Sì, ti dici ridendo come un fesso per qualche idiozia detta dalla nuova venuta, questa è una che ci sta. Forse potrebbe starci pure con un inguaribile imbranato con le donne come te.

Sono passati alcuni minuti che la cinguettante donzella (parla quasi sempre solo lei) dichiara che ha un certo appetito e mi chiede se ho qualcosa nella mia borsa di viaggio. Non ci sto a pensare un secondo e tiro fuori la regina delle mie vivande, la merenda con funghi nostrani, melanzane alla napoletana e la pizzaiola. Offro alla mia interlocutrice la parte migliore della merenda, quella più grossa e con più ripieno. E quindi continuo maldestro la conversazione. Curiosamente noto che da quando la donzella si è impossessata della parte migliore della mia merenda il suo interesse nella conversazione sembra scemato, ma forse è solo troppo impegnata a far lavorare le mascelle.
Passa il controllore e chiedo il permesso di allontanarmi per domandargli un’informazione di viaggio. Ci avrò messo un centinaio di secondi al massimo, ma quando torno al mio posto lo trovo vuoto. La ragazza non c’è più. Faccio qualche passo tra le file di sedili e la ritrovo sette od otto posti più avanti. Parla con due giovanotti che sembrano ameni e loquaci come lei. Si è portata appresso il suo bagaglio come se si fosse trasferita per sempre in quel nuovo posto. Noto che si è portata dietro pure la parte migliore della mia merenda e che se la divide con i due nuovi conoscenti. Fa finta di non vedermi, anche se avrà parlato quasi mezz’ora con me. Mi sale in sangue alla testa. Vorrei dirle qualcosa come “Grandissima zocc***, sputa subito il maltolto!” Ma la merenda gliel’ho offerta io, non posso negarlo… e poi mi conosco, certe volte se inizio a parlare non mi posso più fermare.

Che fare? Diciamo che la gentildonna mi ha fregato. Sono inconvenienti della vita. Delle volte ti svaligiano la casa, altre volte ti prosciugano il conto bancario (per chi ce l’ha) o ti fanno sparire la macchina che ancora devi iniziare a pagare… a me era andata bene. Mi avevano solo fregato la merenda che avrei dovuto mangiare dopo Firenze Santa Maria Novella. Mi toccava solo tirare un po’ la cinghia o barattare qualche capo di vestiario per un po’ di cibarie. Niente di grave.
Dopo quella volta, mai offerto più niente a nessuno in treno. Al diavolo, se volete la mia prelibata merenda guadagnatevela spianandomi in faccia un’onesta P38 con il colpo in canna!

Libri a peso


La libreria Feltrinelli della mia città un giorno fece un’insolita offerta. Offriva uno sconto del trenta per cento se il peso dei libri acquistati superava una certa soglia (mi pare fossero due chili, ma non ne sono sicuro).
Subito le proteste dei soliti tromboni che infestano le librerie. E i sorrisetti furbeschi e saccenti dei clienti in fila alla cassa. “Eh, già, adesso la cultura si vende pure a peso”. “Povero mondo, dove andremo a finire!” “Ci pensate se la qualità di un libro fosse dovuta al suo peso?” E tutto questo tralasciando le varie invocazioni ai grandi della letteratura che a quell’ora si agitavano nella tomba.
Ricordo che c’era una fila lunghissima alla cassa, quel giorno. Io ero l’unico che non rideva. Ero quello che non faceva battute. Ero invece un pozzo contento. Perché avevo sotto mano un ponderosissimo romanzo storico di quasi mille pagine e avevo fondate speranze che riuscisse a superare la soglia di sbarramento oltre la quale avevi lo sconto.
Mentre mi appropinquavo alla cassa, la mia fiducia vacillava. C’era gente che con almeno quattro libri (erano libri secchi di autori che detestavo, a quanto potevo vedere) non riusciva ad accedere allo sconto. Questi tizi se la sghignazzavano contenti quando si accorgevano che l’affronto dello sconto a peso quel giorno non li avrebbe macchiati. Io però ero preoccupato. L’abbuono di prezzo sarebbe stato un toccasana per le mie tasche sempre vuote; in verità avevo fatto così affidamento sullo sconto che non sapevo nemmeno se potevo pagare il prezzo intero del libro in caso di problemi. E rimettere a posto un libro in una libreria era senz’altro più umiliante che compiere la stessa azione con una confezione di pelati san Marzano che non puoi pagare.
Comunque la cassiera mette il volume sulla bilancia e mi dice che ce l’ho fatta. Adesso rido pure io, sia pure per un motivo assai diverso da quello del resto dei clienti della libreria.
Passai altre volte alla Feltrinelli per cercare di trovare lo sconto a peso (sembrava un’offerta fatta apposta per me, dato che i libri che compravo, senz’altro per una questione di rapporto prezzo-pagine lette, erano sempre molto voluminosi). Purtroppo le proteste della somara massa tromboneggiante affondarono l’iniziativa sul nascere.
Adesso non vado quasi più in libreria, sempre per una faccenda di costi alti e tasche vuote (le mie tasche osservano un solo corso storico che non ha bisogno di ricorsi). Compro ciò che devo leggere sulle bancarelle dell’usato (c’è un punto della mia città in cui puoi trovare a prezzi convenientissimi di tutto, classici o anche best-seller poco prima in vendita in libreria a prezzi esorbitanti).

Libri resuscitati


Cara Gloria, mi sono capitate alcune cose in questi giorni. Non molto importanti, ma in qualche caso strane, almeno per me.
La cosa più strana è che ho letto un romanzo. E' Dottori di Eric Segal, l'autore di Love story. Come dice il titolo racconta le storie di alcuni medici laureatisi ad Harvard negli anni Sessanta. Dov'è la stranezza? dirai.
Beh, possedevo quel libro da quasi quindici anni (tra l'altro una bella edizione con copertina cartonata) e avevo cercato di leggerlo per un numero di volte almeno pari agli anni di possesso. I tentativi di lettura si erano sempre arenati nelle primissime pagine del romanzo (ne conta 800), e in modo brusco. Mancanza assoluta di feeling. Avevo nascosto il romanzo in un angolo convintissimo che non l'avrei letto mai (sono sicuro che anche tu hai diversi di questi libri disseminati per casa tua e che ti viene un senso di colpa grosso così ogni volta che ti imbatti in uno di essi: un libro comprato e non letto, che cosa c'è di peggio?). Bene, faccio le pulizie natalizie e che cosa ti pesco da una specie di doppio fondo di libreria, se non il bravo Dottori?

Il mai sopito senso di colpa (e forse anche la voglia di sfidare l'ignoto) mi spingono a riaprire il reperto rinvenuto. Sorpresa. Meglio ancora, stupore. In men che non si dica arrivo a pagina venti (prima naufragavo sempre intorno alla pagina cinque). Il tempo di grattarsi la pancia e stendersi sul letto e sono a pagina cento. Quindi, all'una e venti di notte, orario in cui cedo all'esigenza di dormire, sono intorno alla duecento.
Per non farla lunga: passo un giorno e mezzo sul bistrattato Segal, cioè tutto il tempo libero escluso quello per mangiare, dormire ed espletare le altre inderogabili necessità umane... e lo finisco.

La vita è un mistero, non credi? Domanda: perché uno per tanti anni e tanti tentativi muore in modo violento e perentorio a pagina cinque e un dato giorno vola a pagina ottocento senza nemmeno lo sforzo di battere le ali?

Per la cronaca il romanzo suddetto mi ha comunicato le seguenti sensazioni. L'ho trovato molto scorrevole e piacevole nella lettura. Alla fine non mi ha fatto gridare al miracolo letterario, ma mi ha lasciato contento. Ultima sensazione un po' amara, mi ha lasciato con la percezione che la vita è un po' come il Natale, non viene mai come te lo saresti aspettato; insomma, nasci, cresci, studi, ti innamori, ti sposi, fai le cazzate che fanno tutti, conquisti qualche buon successo lavorativo e qualche bella ragazza, magari (come nella storia) fai qualche scoperta medica più o meno importante e scrivi qualche brillante saggio sulla psichiatria.. e poi? E poi ti rendi conto che non erano il Natale e la vita che ti aspettavi. Ciao, Gloria.

Le gambe assassine dell'agente letteraria


Napoli-Milano di diversi anni fa. Dovevo andare nella città ambrosiana per incontrare un’agente letteraria che aveva letto il mio romanzo a pagamento e, con qualche titubanza (certo l’interessata avrebbe preferito incamerare le mie cinque cocuzze, 500 mila del vecchio conio, cavandosela con banalità telefoniche) aveva acconsentito a incontrarmi per comunicarmi le sue sagge riflessioni sulla mia opera (ehm) letteraria.
A quell’epoca ero molto ingenuo della vita (forse lo sono tuttora). Mi sembrava di andare non a un appuntamento con una ladra vigliacca (di quelle astutissime che non rischiano nemmeno la galera a differenza degli onesti rapinatori a mano armata risiedenti nel mio palazzo), ma con una persona magnanima che avrebbe potuto cambiare la mia vita letteraria e non.

Come al solito avevo pochi soldi. Avevo preso il treno che costava meno. E per non sprecare in vitto ulteriore pecunia non disponibile, mi ero fatto preparare in famiglia un po’ di vivande da portare con me. Il piatto forte era rappresentato da una merenda bella grossa con funghi nostrani, melanzane sott’olio alla napoletana e fettine di carne alla pizzaiola (piene di origano e spezie). Una delizia.
Salgo sul treno e prendo posto. Meditavo di mangiare la merenda un po’ più in là, diciamo dalle parti di Firenze, in modo da farmi bastare i viveri per tutto il viaggio (tra il compenso alla ladra letteraria, il costo del biglietto e le spese varie mi si erano prosciugate le risicate finanze). La carrozza è quasi vuota, quando ecco che si avvicina una donzella. E’ una bella ragazza e non ha alcuna difficoltà a fare amicizia con gli estranei. Non è una persona dal linguaggio e dal pensiero oltremodo raffinati (inclinava un tantino sul volgare di tanto in tanto)… ma ai miei occhi quello è un dettaglio del tutto irrilevante. Tra l’altro dopo poche battute si rivela come una ragazza dai costumi estremamente liberi e ti fa quasi aleggiare davanti agli occhi la possibilità di un’avventura sessuale in quello stesso scompartimento ferroviario semivuoto.
Sì, ti dici ridendo come un fesso per qualche idiozia detta dalla nuova venuta, questa è una che ci sta. Forse potrebbe starci pure con un inguaribile imbranato con le donne come te.

Sono passati alcuni minuti che la cinguettante donzella (parla quasi sempre solo lei) dichiara che ha un certo appetito e mi chiede se ho qualcosa nella mia borsa di viaggio. Non ci sto a pensare un secondo e tiro fuori la regina delle mie vivande, la merenda con funghi nostrani, melanzane alla napoletana e la pizzaiola. Offro alla mia interlocutrice la parte migliore della merenda, quella più grossa e con più ripieno. E quindi continuo maldestro la conversazione. Curiosamente noto che da quando la donzella si è impossessata della parte migliore della mia merenda il suo interesse nella conversazione sembra scemato, ma forse è solo troppo impegnata a far lavorare le mascelle.
Passa il controllore e chiedo il permesso di allontanarmi per domandargli un’informazione di viaggio. Ci avrò messo un centinaio di secondi al massimo, ma quando torno al mio posto lo trovo vuoto. La ragazza non c’è più. Faccio qualche passo tra le file di sedili e la ritrovo sette od otto posti più avanti. Parla con due giovanotti che sembrano ameni e loquaci come lei. Si è portata appresso il suo bagaglio come se si fosse trasferita per sempre in quel nuovo posto. Noto che si è portata dietro pure la parte migliore della mia merenda e che se la divide con i due nuovi conoscenti. Fa finta di non vedermi, anche se avrà parlato quasi mezz’ora con me. Mi sale in sangue alla testa. Vorrei dirle qualcosa come “Grandissima zocc***, sputa subito il maltolto!” Ma la merenda gliel’ho offerta io, non posso negarlo… e poi mi conosco, certe volte se inizio a parlare non mi posso più fermare.

Che fare? Diciamo che la gentildonna mi ha fregato. Sono inconvenienti della vita. Delle volte ti svaligiano la casa, altre volte ti prosciugano il conto bancario (per chi ce l’ha) o ti fanno sparire la macchina che ancora devi iniziare a pagare… a me era andata bene. Mi avevano solo fregato la merenda che avrei dovuto mangiare dopo Firenze Santa Maria Novella. Mi toccava solo tirare un po’ la cinghia o barattare qualche capo di vestiario per un po’ di cibarie. Niente di grave.
Dopo quella volta, mai offerto più niente a nessuno in treno. Al diavolo, se volete la mia prelibata merenda guadagnatevela spianandomi in faccia un’onesta P38 con il colpo in canna!

Quando gli editori fanno Oh


Domanda: gli editori possono essere stupidi?
Risposta: sì, possono esserlo. Talvolta anche in maniera irritante.
In effetti per quanto riguarda il rapporto editori-scrittori sono noti i mille difetti attribuiti agli autori in cerca di editore (per lo meno sono noti a coloro che hanno familiarità in questo campo della vita). Gli autori, si dice, specie se esordienti, si dice, sono sciocchi, superficiali, dozzinali, rompiscatole, attaccabrighe, scrivono lettere lunghe e tediose, ti tengono a telefono per ore per parlarti del loro ultimo capolavoro che pare scritto da un adolescente appassionato di wrestling, sono piagnoni, cocchi di mamma, narcisi più brutti e antipatici di Sgarbi e hanno perfino il fiato che gli puzza.
E gli editori? In verità qualche volta si arriva ad ammettere che sì, quelli che ti spillano soldi dalle tasche per farti pubblicare non hanno un comportamento del tutto irreprensibile. Qualche anima bella arriva a chiamarli perfino ladri (però subito specificando che quella genia non appartiene alla nobile schiatta degli editori, ma alla più banale categoria dei furfanti da strada). In tutti i casi sulla questione della stupidità mi pare di non aver mai udito apprezzamenti in merito. Forse la mia esperienza in questo campo potrebbe essere utile per inquadrare meglio il problema.

Dunque, avevo finito di scrivere il mio romanzo e condotto una lunga e tediosa ricerca su internet per individuare gli editori che avrebbero potuto esaminarlo con un minimo di speranza di successo. Avevo letto lunghe interviste agli editori e mandato e-mail per accertarmi se chi di dovere avesse intenzione di esaminare il mio lavoro prima delle calende greche.
La lista è pronta e i pacchi postali già confezionati. Solo che mi accorgo che uno degli editori a cui intendo rivolgermi non è stato chiaro sulla questione del contributo da parte degli autori.
Bene, non è un gran male. Ci vorrà un attimo per accertarlo, mi dico. Batto una prima palla piuttosto morbida. Mando una e-mail all’editore in questione e gli chiedo se per piacere potrebbe essere più chiaro sulla faccenda del contributo, perché dall’intervista che ha rilasciato a un noto sito di internet non ci ho capito molto. Risponde come se fosse Winston Churchill con il sigaro in bocca dicendo che non ricorda l’intervista in questione, ma che lui in questi casi dice sempre che gli editori sono quelli che svolgono le operazioni per farti pubblicare il libro, mentre gli altri si devono chiamare tipografi. Tra l’altro, afferma il novello Winston, certe domande gli sembrano offensive.
Ancora io alla battuta. Nuova e-mail per dire che ancora non ho capito bene. Non potrebbe essere più chiaro, il mio interlocutore, in modo da far capire anche persone dotate di poco comprendonio come il sottoscritto?

La sua risposta mi fa pensare di aver a che fare con un individuo disturbato. Mi manda una e-mail di almeno otto cartelle (quattro della lettera in sé e quattro di Post Scriptum). Mi dice che lui è costretto a spiegarmi tutto ma proprio tutto, come in certi siti americani in cui ti suggeriscono anche come e dove aprire il pacco in cui mettere il manoscritto e magari anche con quale mano farlo. Dice che si è riletto l’intervista che ho citato e che per lui è chiarissima. Ripete pari pari gli argomenti esposti in precedenza (solo facendolo con uno sproloquio linguistico di scadente qualità letteraria tale da farti rabbrividire) e vi aggiunge un lagnoso piagnisteo su come sia difficile e duro fare il mestiere di editore con i distributori che non ti prendono in considerazione e con tutto il mondo che ti tratta da Calimero. Mi trasmette una punta di paura quando mi comunica, seguendo un percorso mentale oscuro, che lui detesta le faccine a forma di icona usate per comunicare gli stati d’animo (quegli orrori a suo dire sostituiscono la potenza e la precisione della lingua scritta: campo in cui lascia intendere di essere un’autorità riconosciuta).
E’ la volta della mia volée di rovescio. Gli dico che non gli mando più il mio romanzo (non che sia il capolavoro che il mondo attende, tutt’altro). La comunicazione tra noi non è difficile, ma impossibile. Anche nell’improbabile caso in cui fosse folgorato dalle mie qualità letterarie, come riuscirebbe a comunicarmelo se non per interposta persona? Mi avrà scritto almeno una dozzina di cartelle e io ancora non ho capito se lui questi benedetti soldi li prende o no.
Risponde ormai irridente che se non capisco dovrei cercarne la ragione nella mia testa. Fa un po’ di sproloqui penosi e pessimamente scritti. Tra l’altro dice: “Se uno che le dice ‘Quelli che bevono la Budweiser sono degli stronzi!’, lei gli andrebbe a chiedere ‘Mi scusi, lei beve la Budweiser?’.” Infine si decide a dire a grandi lettere che lui i soldi non li prende (dovrei usare il condizionale, perché ormai a questo punto il dubbio mi resta e credo mi resterà per sempre).
La mia risposta finale, purtroppo non molto urbana (ma bisogna anche considerare ciò che avevo dovuto subire e le volte che avevo fantasticato di sottoporre a tortura l’editore in questione per estorcergli la verità) è stata la seguente: “E che cavolo (l’espressione usata era lievemente diversa da questa), ci voleva tanto a dirlo?”.

Fine della conversazione virtuale, anche se il mio interlocutore mi ha scritto ancora, credo soprattutto per avere l’ultima parola. Da quel giorno mi arriva una newsletter settimanale (assolutamente non richiesta e non gradita) sulle attività di una particolare casa editrice.
Ricordo che il giorno in cui si svolse questo surreale scambio di idee considerai a fondo l’idea di dedicarmi all’attività di editore. Se la concorrenza era rappresentata da individui poco acuti come quello di cui avevo fatto la conoscenza, in poco tempo avrei conosciuto un successo strepitoso.