Dio mi scampi dai best seller moderni


I best seller moderni? Spesso è meglio starne alla larga, come dimostra la mia esperienza di lettura del romanzo La verità del ghiaccio di Dan Brown, l’autore del Codice Da Vinci. E’ uno dei dieci volumi da me acquistati di recente e forse non avevo tutti i torti quando mostravo maggiore propensione per le gambe della ragazza, evocate nell’articolo precedente, che per le mie corpose spese librarie.
E’ un romanzo di quasi 600 pagine e credo sia afflitto almeno da quattro difetti principali di cui due, a mio modo di vedere gravissimi. Il primo difetto è promettere una cosa e poi non mantenerla. Questa è una delle regole basilari riscontrabili nelle prime pagine dei manuali di scrittura creativa. Nelle battute iniziali di una storia un autore stabilisce una specie di patto implicito con il lettore. Ci sono alcune promesse che l’autore fa con i primi paragrafi della sua prosa e che deve mantenere in ogni caso se vuole conservare la sua credibilità letteraria. Cioè se prometti un’avventura western, il tuo romanzo deve avere cow-boy e indiani, se prometti una storia con draghi e stregoni è essenziale che ci siano fiammate ed epigoni di Gandalf, se nelle tue prime pagine garantisci love story o sangue e arena, dovrai agire di conseguenza.
Ebbene il romanzo di Brown si presenta in tutto e per tutto, dal titolo, dalla retrocopertina, dall’impostazione generale, come una storia di fantascienza alla Michael Chrichton, ossia la scoperta di una forma di vita extraterrestre nell’Artico. Quest’annuncio già ti prepara a eventuali scenari a te cari, e cioè alla possibilità che il meteorite rinvenuto contenga virus letali potenzialmente distruttivi per vita terrestre, forme di vita intelligente che vogliono impossessarsi del pianeta, una Cosa dell’Altro Mondo ostile e potente o, alla peggio, un E.T. lagnoso minacciato dai cattivissimi militari o guerrafondai yankee.
Leggi le prime cento pagine del romanzo e la vita extraterrestre (e il successivo attacco alla terra) tardano a manifestarsi. Ne leggi altre cento e poi ancora altre cento e la vicenda collegata al meteorite alieno pare quasi una sottotrama, la storia del romanzo si svolge perlopiù a Washington e tratta degli intrighi politici in vista delle elezioni presidenziali americane.
A un certo punto risulta addirittura chiaro che non c’è nessun meteorite di origine extraterrestre, e men che meno forme di vita aliene che cercano di impossessarsi della terra. Quello che c’è è una lotta di potere alla Tutti gli uomini del Presidente. Devo ammettere che giunto a questo punto, mi sono incavolato parecchio. Mi sono sentito preso in giro dall’autore. Io non volevo leggere, non in quel momento una spy story politica, ma un robusto e se possibile appassionante romanzo su una minaccia dallo spazio o sul contatto con una civiltà aliena. Mi sono incavolato perché al supermercato ho comprato una busta di prugne secche della California e dalla confezione sono uscite olive nere di Gaeta.

Il secondo grave difetto del libro di Dan Brown a mio modo di vedere era la considerevole quantità di aria fritta che conteneva. Il romanzo consta di seicento pagine, ma ha materiale solo per arrivare alle duecento. E’ incredibile la successione di pagine e pagine in cui non succede niente, in cui si interrompe la narrazione, già lenta e inconsistente di suo, con pesanti e tediosi flashback sulla solita moglie amatissima e morta o sulla ugualmente amatissima madre morta pure lei. Per andare dal punto A a quello B Brown ci mette una vita. Facciamo un esempio. Mettiamo che tu sia stato convocato dal presidente degli Stati Uniti per una comunicazione privata. Ebbene ci vogliono quattro lunghissimi capitoli, intervallati da altrettanti capitoli di una trama secondaria di cui non ti frega niente, prima che l’abulico presidente si decida a dirti “Veniamo al motivo per cui l’ho convocata”. Devi sorbirti tutta la meticolosa descrizione del viaggio in elicottero, l’ugualmente prolissa rappresentazione dell’Air Force One e delle sue meraviglie elettroniche o del vestiario finto casual del tuo illustre interlocutore. Roba che puoi schiattare di bile prima di sapere che cazzo pretende da te il primo cittadino americano.

Altro errore del libro, errore piuttosto diffuso il letteratura, è la moltiplicazione dei punti di vista da cui si racconta la storia. Invece di concentrarsi su un personaggio principale che faccia da osservatore con poche eccezioni, ecco un proliferare di angolazioni visive, un senatore intrallazzatore, la figlia mandata in Artico, la sua segretaria in bilico tra carrierismo e moralità, una perfida assistente del Presidente che sembra tratta dal telefilm “West Wing”, gente della Delta Force, il presidente stesso, direttori di Nasa o di agenzie spionistiche, un paio di scienziati e Dio sa cos’altro. Il proliferare dei punti di vista è aggravato dal fatto che la maggior parte dei personaggi non sono per nulla interessanti, almeno per me, e ti spingono a qualche cauta imprecazione quando interrompono il flusso principale della storia con la loro irritante presenza a base di aria fritta.
Procediamo con gli elementi fastidiosi, ma ammetto che questo punto potrebbe riguardare solo me. E arriviamo all’insistenza pedantesca e perfino ossessiva che Brown dedica alla descrizione di ogni giocattolo tecnologico in dotazione alle forze speciali americane, fucili che sparano pallottole di ghiaccio, slitte supersofisticate, rivelatori elettronici microscopici, postazioni alla Mission Impossible per comunicare al sicuro da intercettazioni. E baaastaaaaa. Basta con tutte queste pagine di cazzate tecnologiche, amico. Dacci un po’ dei personaggi e storie credibili. Cerca di non soffocarci con tutta questo niente tecnologico. Dacci storie vere o verosimili, dacci personaggi, dacci amore.

Ancora due riflessioni finali. Mi mancano ancora un centinaio di pagine per finire il romanzo, ma non credo che nell’ultimo scampolo di libro ci siano improvvise invasioni aliene o che Brown si metta a scrivere all’improvviso come Tolstoj.
Sono comunque contento anche quando leggo un libro che non mi è piaciuto integralmente. Perché la lettura ti offre sempre motivi di spunti e riflessioni, come è accaduto pure in questo caso e con questo post.

Carico di libri, in bilico tra felicità perfetta e perfetta coglioneria


Sei giù di corda. Le cose non vanno. Hai la luna storta. Bisogna correre ai ripari. Che fare? Passeggiare, ascoltare musica, andare a cinema? No, questi sono palliativi buoni per lenire un poco di monotonia. Quando la situazione si fa grave, esiste una sola via d’uscita per far tornare il sorriso sul tuo volto rabbuiato. Shopping.
Eccola qui, la parola magica che tiene alla larga i cattivi umori: shooooppingggg!!!!

I problemi non sono finiti, perché esistono tanti tipi di shopping quasi per quante persone abitano questa valle di lacrime. Comprare, sì, ma che cosa? Di quali oggetti devi impadronirti per gratificare la tua anima abbacchiata? La scelta più facile sarebbe spendere in abbigliamento. Comprare pantaloni, felpe o scarpe alla moda per migliorare il tuo aspetto fisico e quindi il tuo ascendente presso gli altri. Ma c’è il problema che a te non te ne frega niente di come vesti, porti lo stesso tipo di jeans da un quarto di secolo e scarponi robusti, brutti a vedersi, ma ottimi per camminare. Allora che cosa comprare? Un telefonino di ultima generazione, un navigatore satellitare, qualche sofisticato ammennicolo da computer o perfino una pizza quattro stagioni? Ancora non ci siamo. La maggior parte di quegli oggetti è fuori dalla portata delle tue tasche (e poi non sapresti che fartene di un navigatore satellitare o di un odioso telefonino Facciotuttoio)… La pizza? Quella ti rimane sullo stomaco. Però a ben vedere non sei messo male. Perché c’è qualcosa che ti piacerebbe acquistare. I libri. Ne vai matto. Romanzi di avventura o saggi scientifici divulgativi. Ecco la direzione in cui puoi dirigere il tuo shopping scacciapensieri. E sei pure fortunato, perché nella tua partenopea città, e segnatamente nel luogo denominato Port’Alba, ci sono bancarelle dell’usato in cui puoi acquistare ottimi libri a poco prezzo.

Ieri ero un pochino a corto di buonumore e ho quindi deciso di dedicarmi al mio shopping preferito – che per mia fortuna è il solo shopping che posso permettermi – l’acquisto di libri usati. In tutta sincerità avevo poche speranze di trovare buone occasioni sulle bancarelle (ormai note ai frequentatori di questo blog) della napoletana Port’Alba. Infatti, arrivando da via Mezzocannone a piedi come mio solito, ho notato che le prime bancarelle non presentavano novità degne di nota e che per di più i prezzi risultavano per niente attraenti, da cinque a dieci euro. Poi a un tratto sono rimasto di sasso.
Una libreria nella quale a dire il vero non ci avevo quasi mai comprato niente era letteralmente gonfia di volumi nuovissimi, rilegati con cura, stampati in caratteri nitidi e grossi e perfino con le pagine che odoravano di nuovo. Il prezzo? Pareva un miraggio. Due euro a volume (per libri che spesso davano l’impressione di costare dieci volte tanto). Non credevo ai miei occhi. Ho occupato subito una posizione strategica sulle bancarelle, scalzando alcuni perditempo che rovistavano senza convinzione. Quindi ho cominciato a impadronirmi di romanzi su romanzi. A un tratto il proprietario della libreria mi ha invitato a scegliere la merce dentro la libreria, perché avevo accatastato tanti di quei volumi sulle bancarelle che impedivo l’accesso ad altri eventuali acquirenti.
Il mio bottino finale è stato di dieci robusti volumi, per una spesa di venti euro (cifra non irrisoria per le mie tasche, ma molto ben investita nell’occasione). Ho preso un paio di romanzi avventurosi di Wilbur Smith, qualche thriller tecnologico, un giallo ambientato in epoca vittoriana, un saggio di evoluzionismo di Stephen Jay Gould e un robusto volume di Vittorio Zucconi su Cavallo Pazzo e sulla tragedia dei Sioux. Ho stimato di essermi impossessato di qualcosa come cinquemila pagine stampate e il fatto di averle pagate solo venti euro mi dava una gioia profonda difficile da spiegare. Leggere qui per avere maggiori dettagli

Ovviamente il buon Dio ha ritenuto che la perfetta e travolgente felicità che percepivo, mentre sfociavo a piazza Dante con una voluminosa busta contenente libri più numerosi e pesanti di quelli dello zaino di uno studente secchione, fosse troppa per un semplice mortale… Ed ecco quindi che ha ritenuto di ammonirmi a non gioire troppo. Infatti, non ero nemmeno giunto a metà della piazza che mi sono bloccato sentendomi un coglione di quelli brutti. Diciamo pure uno di quei babbei calzati e vesti che sembrano ridicoli perfino nelle operette.
E’ accaduto che mi sono girato e ho visto alcune ragazze attraenti, di cui una magnifica in minigonna, che ridevano con giovanottoni ghignanti all’apparenza non troppo inclini al pensiero riflessivo. La situazione era più o meno la seguente. Qui nel mio pugno c’era la busta di libri che mi segava la mano con il suo onusto fardello e lì c’erano le gambe della ragazza, quella bella. Mi sono detto qualcosa che suonava come: ma che cazzo ho da essere felice?
Non mi resta che ringraziare il Cielo per avermi allontanato dalla lussuriosa gioia a cui a volte può spingerci la letteratura e avermi riportato nell’ambito della modestia terrena. Ora però comincio ad attaccare il libro di Zucconi sui Sioux. :-)