Quando gli editori fanno Oh


Domanda: gli editori possono essere stupidi?
Risposta: sì, possono esserlo. Talvolta anche in maniera irritante.
In effetti per quanto riguarda il rapporto editori-scrittori sono noti i mille difetti attribuiti agli autori in cerca di editore (per lo meno sono noti a coloro che hanno familiarità in questo campo della vita). Gli autori, si dice, specie se esordienti, si dice, sono sciocchi, superficiali, dozzinali, rompiscatole, attaccabrighe, scrivono lettere lunghe e tediose, ti tengono a telefono per ore per parlarti del loro ultimo capolavoro che pare scritto da un adolescente appassionato di wrestling, sono piagnoni, cocchi di mamma, narcisi più brutti e antipatici di Sgarbi e hanno perfino il fiato che gli puzza.
E gli editori? In verità qualche volta si arriva ad ammettere che sì, quelli che ti spillano soldi dalle tasche per farti pubblicare non hanno un comportamento del tutto irreprensibile. Qualche anima bella arriva a chiamarli perfino ladri (però subito specificando che quella genia non appartiene alla nobile schiatta degli editori, ma alla più banale categoria dei furfanti da strada). In tutti i casi sulla questione della stupidità mi pare di non aver mai udito apprezzamenti in merito. Forse la mia esperienza in questo campo potrebbe essere utile per inquadrare meglio il problema.

Dunque, avevo finito di scrivere il mio romanzo e condotto una lunga e tediosa ricerca su internet per individuare gli editori che avrebbero potuto esaminarlo con un minimo di speranza di successo. Avevo letto lunghe interviste agli editori e mandato e-mail per accertarmi se chi di dovere avesse intenzione di esaminare il mio lavoro prima delle calende greche.
La lista è pronta e i pacchi postali già confezionati. Solo che mi accorgo che uno degli editori a cui intendo rivolgermi non è stato chiaro sulla questione del contributo da parte degli autori.
Bene, non è un gran male. Ci vorrà un attimo per accertarlo, mi dico. Batto una prima palla piuttosto morbida. Mando una e-mail all’editore in questione e gli chiedo se per piacere potrebbe essere più chiaro sulla faccenda del contributo, perché dall’intervista che ha rilasciato a un noto sito di internet non ci ho capito molto. Risponde come se fosse Winston Churchill con il sigaro in bocca dicendo che non ricorda l’intervista in questione, ma che lui in questi casi dice sempre che gli editori sono quelli che svolgono le operazioni per farti pubblicare il libro, mentre gli altri si devono chiamare tipografi. Tra l’altro, afferma il novello Winston, certe domande gli sembrano offensive.
Ancora io alla battuta. Nuova e-mail per dire che ancora non ho capito bene. Non potrebbe essere più chiaro, il mio interlocutore, in modo da far capire anche persone dotate di poco comprendonio come il sottoscritto?

La sua risposta mi fa pensare di aver a che fare con un individuo disturbato. Mi manda una e-mail di almeno otto cartelle (quattro della lettera in sé e quattro di Post Scriptum). Mi dice che lui è costretto a spiegarmi tutto ma proprio tutto, come in certi siti americani in cui ti suggeriscono anche come e dove aprire il pacco in cui mettere il manoscritto e magari anche con quale mano farlo. Dice che si è riletto l’intervista che ho citato e che per lui è chiarissima. Ripete pari pari gli argomenti esposti in precedenza (solo facendolo con uno sproloquio linguistico di scadente qualità letteraria tale da farti rabbrividire) e vi aggiunge un lagnoso piagnisteo su come sia difficile e duro fare il mestiere di editore con i distributori che non ti prendono in considerazione e con tutto il mondo che ti tratta da Calimero. Mi trasmette una punta di paura quando mi comunica, seguendo un percorso mentale oscuro, che lui detesta le faccine a forma di icona usate per comunicare gli stati d’animo (quegli orrori a suo dire sostituiscono la potenza e la precisione della lingua scritta: campo in cui lascia intendere di essere un’autorità riconosciuta).
E’ la volta della mia volée di rovescio. Gli dico che non gli mando più il mio romanzo (non che sia il capolavoro che il mondo attende, tutt’altro). La comunicazione tra noi non è difficile, ma impossibile. Anche nell’improbabile caso in cui fosse folgorato dalle mie qualità letterarie, come riuscirebbe a comunicarmelo se non per interposta persona? Mi avrà scritto almeno una dozzina di cartelle e io ancora non ho capito se lui questi benedetti soldi li prende o no.
Risponde ormai irridente che se non capisco dovrei cercarne la ragione nella mia testa. Fa un po’ di sproloqui penosi e pessimamente scritti. Tra l’altro dice: “Se uno che le dice ‘Quelli che bevono la Budweiser sono degli stronzi!’, lei gli andrebbe a chiedere ‘Mi scusi, lei beve la Budweiser?’.” Infine si decide a dire a grandi lettere che lui i soldi non li prende (dovrei usare il condizionale, perché ormai a questo punto il dubbio mi resta e credo mi resterà per sempre).
La mia risposta finale, purtroppo non molto urbana (ma bisogna anche considerare ciò che avevo dovuto subire e le volte che avevo fantasticato di sottoporre a tortura l’editore in questione per estorcergli la verità) è stata la seguente: “E che cavolo (l’espressione usata era lievemente diversa da questa), ci voleva tanto a dirlo?”.

Fine della conversazione virtuale, anche se il mio interlocutore mi ha scritto ancora, credo soprattutto per avere l’ultima parola. Da quel giorno mi arriva una newsletter settimanale (assolutamente non richiesta e non gradita) sulle attività di una particolare casa editrice.
Ricordo che il giorno in cui si svolse questo surreale scambio di idee considerai a fondo l’idea di dedicarmi all’attività di editore. Se la concorrenza era rappresentata da individui poco acuti come quello di cui avevo fatto la conoscenza, in poco tempo avrei conosciuto un successo strepitoso.

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